Narrativa Edita
Primo Premio
Angelo Vetturini – Riolo Terme (Ravenna)
AURORA CONSURGENS
La Mandragora Editrice – 2009 € 20.00
Moriva il giorno con lui. Così indicava la stella della sera baluginante di guizzi agli occhi stanchi, roventi, ottenebrati di pianto e di languore. Lo feriva a brevissimi intervalli. O forse interminabili, chissà. Ricorrenti, comunque. Durante i quali una sequenza di affreschi gli scorreva dinanzi talora in un baleno, talora a rilento, ravvivando un residuo di tensione che impediva alle palpebre di chiudersi e alle membra di cedere.
Perché l’ambiente ruotava senza posa. Era uno spazio tondo a cielo aperto in cui era stato adagiato – nel mezzo, gli sembrava – su qualcosa di freddo e inospitale, e che muovendo in senso opposto al declinare del sole gli rubava allo sguardo un’imponente finestra a sesto acuto disegnata da bianche nervature, un vuoto che tornava e ritornava all’inizio o alla fine della fascia di affreschi per rivelargli una stella di più e un buon auspicio di meno con il fatale calare della notte – oppure era il giaciglio che ruotava nella vana ricerca dell’oriente…
“… et lux perpetua luceat…”
Più lievi di un fruscio quelle parole giungevano al suo orecchio, biascicate a singhiozzi da un’ombra accovacciata o genuflessa lì accanto; ne percepiva i sussulti sommessi, gli accenni di rifiuto del capo reclinato sul petto, le mani ossute strette tremolanti che a tratti lo sfioravano imprimendogli una scossa sottile.
Il dolore non era persistente. Ma fitte lancinanti gli straziavano le carni in sincronia con i guizzi della stella, quasi spade e coltelli si accanissero a ferirlo di lassù ogni qual volta la finestra passava. Era accaduto tutto così in fretta: il soffio della freccia, la fitta nel dorso, lo scarto del cavallo, l’azzurro tra i rami delle querce mentre si contorceva sulle foglie appassite, e i bagliori delle lame, l’impotenza, il deliquio… E di nuovo gli affreschi. Ma con moto lentissimo, al momento, quasi per farsi cogliere, studiare, e lasciar trasparire sfumature sfuggite, messaggi trascurati che tornavano inattesi su di lui in una sorta di ebbrezza cosciente.
O disegni segreti, mio signore. Anche se nelle vostre condizioni vi sarà faticoso percepirli. Quell’ombra nera, intanto, che presso il vostro sangue ora si strugge, è cosciente della sua colpevolezza e paventa la collera di Dio…
“… quantus tremor est futurus…”
Lasciamo quindi che continui a pregare. E pregate anche voi: ve lo consiglio. Quanto a me, poiché dalle radici di quest’albero irradiato verso il mondo mi è concesso vegliare su di voi, restarvi accanto nell’ora del trapasso, farò sì che intendiate finalmente la verità che agli occhi vi si svela. Ciò vi conforterà, oso sperare, ma non vi salverà. Al castello difatti nessuno può allarmarsi, poiché i vostri assassini hanno acceso il gran fuoco di ogni sera che vi segnala in ottima salute. Non vi resta che un giro di clessidra, in sostanza – di minuta clessidra –, e farete ritorno al Creatore percorrendo i sentieri lungo i rami dell’albero terreno che sale fin quassù. Il mio alitare, dunque, aprendovi la mente, vi disporrà a seguirmi nel castello celeste. Venite, mio signore, vi conduco per mano.
Ma non era soltanto un alitare, la voce silenziosa. S’infiltrava nei meandri del cervello guidata da una spia iridescente, da un occhio penetrante che scrutava gli affreschi assistendo la vista indebolita. Provò a tendere un braccio… rinunciò. Parve allora che la stella guizzante d’occidente e le altre pallide stelle della sera sfuggissero al suo sguardo slittandogli lievissime di lato, e che la prima scena degli affreschi non solo rallentasse fino quasi a fermarsi ma si ampliasse pian piano a dismisura e i suoi contorni si mettessero a fuoco per definire un ambiente familiare.
[ABSTRACT A CURA DELL’AUTORE].
Sin dalle prime parole dell’incipit il racconto si rivela coinvolgente e il lettore si sente sedotto e attratto nel gioco sottile ed intrigante della trama narrativa. Nell’ambiente medievale, ambiguo ed inquietante, l’autore cala una storia particolare, che ha del giallo e dello psicologico, che attinge insieme alla dimensione reale e a quella surreale ed onirica; la narrazione si carica di simboli e significati, che rimandano al mistero della vita e della morte, del bene e del male, nella loro continua, tragica dicotomia. Il tutto è affidato ad uno stile formalmente lineare, tecnicamente scaltrito, senz’altro controllato e accattivante. [Maria Olmina D’Arienzo]
SECONDOPREMIO
Sandro Manoni – Venezia Lido
L’ISOLA DELLE LUSINGHE
Casa Editrice: Gruppo Albatros Il Filo
Anno: 2007
Pagine: 342 Prezzo: € 18,50
Sandro Manoni con L’isola delle lusinghe ha saputo confezionare un’opera che arieggia per alcuni rispetti certi romanzi fluviali del Novecento, mettendo in scena una sorta di saga familiare in un’epoca
di profonde trasformazioni, della quale vengono fornite le coordinate storico-sociali (gli anni del boom economico, in Sardegna). La sua prosa analitica, che si distende a volte in un periodare di ampio respiro, si rivela un potente scandaglio in grado di mettere in luce le motivazioni dell’agire umano con riferimento ad una vera e propria galleria di personaggi, dei quali viene delineata nelle varie sfaccettature la complessa personalità, sondata nelle più riposte pieghe dell’animo. Accanto a questi si muove una folla di figurine (“il cozzaro nero “, il “ segaligno consigliere”), abbozzate con la tecnica espressionistica dello scorcio e della deformazione grottesca. Non mancano scene di cupa grandezza, come quella che descrive il conciliabolo notturno dei tre professionisti, esponenti della nuova generazione, che decidono di accantonare i loro ideali giovanili e venire a patti con la coscienza
in un brutto affare di speculazione edilizia. I fili della narrazione sono abilmente mossi da un narratore onnisciente, il cui atteggiamento giudicante traspare anche dalla sapiente aggettivazione. Gli strumenti linguistici si adattano alle varie occasioni narrative. Di volta in volta paludata, solenne, riflessiva, mossa, la lingua dello scrittore sa anche in taluni casi ricalcare mimeticamente la sintassi degli isolani, per caratterizzare i diversi interlocutori in una sorta di crocevia linguistico. [Fabio Dainotti]
TERZO PREMIO ex-aequo
Compagnia letteraria “Colonne d’Ercole”
Sputi. Storie di disprezzo
2008, 240 p., Bacchilega Editore (collana I romanzi) € 13,00
Come l’ira e la vendetta, come la derisione e l’invidia, anche il disprezzo nella visione di Spinoza appariva schelms, cattivo (e non poco), poiché generato dall’odio. In seguito, e per fortuna, un medico viennese ha messo le cose a posto, assegnando ad ogni sentimento dignità e complessità proprie. Della categoria in sottotitolo si (pre) occupano gli autori dei venti racconti di Sputi. Storie di disprezzo. Entro i quali, placido o vorticoso, tra frequenti rapide o sotterraneo, corre il fiume di questo malpensiero, trasgressore di norme, straziatore di ogni scopo morale, traditore dell’appartenenza.
Gli scrittori sono una dozzina, riuniti in sigla,Colonne d’Ercole, che si autonomina piccola société littéraire, dove ogni affiliés rappresenta la faccia di un poliedro che racchiude dentro di sé “un mondo personale e diverso, che però si fonde nel nucleo pulsante di un unico cuore profondo”. Il volume, in effetti, è testimonianza doppia: delle spiccate, individuali sensibilità e di un comune percorso (di letture?).
Agevolate molto da ben combinati accostamenti e da struttura tale da togliere assai spesso il fastidio del distacco [il testimone viaggia come in un’armoniosa quattropercento], le storie raccontate – siano protagonisti gli ultimi o i capintesta – annotano condizioni di disagio, in totale assenza di moralismo e sentenziosità.
Dal semplice arricciamento del naso all’extreme dello sputo, la gamma del disprezzo c’è tutta. In vario stile, certo. Ma, restino segrete, serbate solo a chi legge, i casi (qui, frequenti) di scrittura eccellente. Come è nello spirito delle Colonne. [Francesco G. Forte]
Paolo Maccioni – Quartu Sant’Elena (Cagliari)
INCENDIO NELLA CATTEDRALE
ed. FRILLI EDITORI 2009 pp. 356 12.00 €
Romanzo appassionante e coinvolgente fin dalle primissime scene, gravide di una violenza che ci proietta subito negli inferni dell’emarginazione metropolitana, nelle contraddizioni della multiculturalità, nel mondo degli immigrati pullulante di tutto, nelle tensioni epocali tra il mondo occidentale e quello islamico.
Un thriller sociale, quindi, ad alto tasso di coinvolgimento emotivo, raccontato, soprattutto nella prima parte, con emozionante chiarezza affabulatoria ed una efficace successione di scene a ritmo cinematografico. Ma, come si conviene ad un giallo di classe, il romanzo, pur se con qualche veniale caduta nello stereotipo ad effetto, razziale o religioso, è anche un piccolo affresco di personaggi ed ambienti, nella cornice di una Torino che non è più la vecchia signora elegante di una volta ma un coacervo turbolento di razze e culture che fatica a trasformarsi in incontro. Le storie individuali evidenziano interiorità vive e dolenti, agitate e spiccate, pur in un turbinio di contraddizioni. Alla fine emerge la possibilità dell’individuo di superare anche le gabbie del fanatismo e della repressione psicologica o gli inganni della società dell’immagine o le attrazioni della ricchezza e del potere. Ed è questo il messaggio che rimane e ci fa partire con i due protagonisti nel viaggio dell’evasione, o della non impossibile realizzazione di un sogno. [Franco Bruno Vitolo]
Premiati con targa
Giorgio Albonico, Lilia Amadio, Manuela Barzacchini, Fabrizio Biuzzi, Alessandro Boccignone, Raffaella Brignetti, Antonio Carosella, Mariadonata Ciceri, Pia Cilli Tosti, Francesco Danti, Alessandra Delogu, Ignazio Delogu, Antonello Di Pinto, Simona Dolce, Luca Ducceschi, Fausto Foglia, Oscar Fois, Eleonora Fossile, Roberto Genovese, Mariagrazia Giuliani, Maddalena Lonati, Giuseppe Perrotta, Simona Pesciaioli, Ines Flavia Rubino, Alessandra Santini, Gianfranco Spinazzi, Anna Maria Torriglia, Letizia Triches.
Premiati con medaglia
Emanuela Antonini, Luciana Baruzzi, Antonia Belvedere, Antonio Berardi, Marco Bottoni, Roberta Brunelli, Castrenze Calandra, Giuseppe Calocero, Vittorio Casali, Alma Chiment, Giovanni Coglitore, Silvia De Blasis, Damerino Del Pistoia, Maricla Di Dio, Nicola Di Paolo, Maria Stefania Dutto, Henry Einsing, Finizzi, Pierfrancesco Forti, Gunter Fracassi, Lucia Freda, Sandro Renato Garau, Emilio Guardavilla, Adalgisa Licastro, Silvio Madonna, Gabriele Marra, Antonella Mazzola, Mila Milanesi, Francesco Olimpico, Francesca Papa, Tiziana Patronelli, Tarcisio Pellegatta, Annapaola Prestia, Marisa Provenzano, Annunziata Scarponi, Piero Teppati, Dianora Tinti, Mario Tonini Bossi, Maria Grazia Vacchina, Antonietta Vargiu, Marina Venturi, Gianni Vesentini, Luca Vicari.
Narrativa Inedita
PRIMO PREMIO
Andrea Bruschi – Travaco’ Siccomario (Pavia)
Lontano da Woodstock
Se il mese di agosto aveva l’aroma aspro del fango delle risaie, novembre a Pavia era un mese di crisantemi e nebbia. Non è un mese facile. All’inizio si festeggiano tutti i santi e tutti i morti, poi hai un bel po’ di giorni per guardare i crisantemi, icone color pastello della fine della vita, appassire giorno dopo giorno insieme al ricordo di chi ti ha lasciato prima del tempo, come se ognuno di noi avesse una scadenza che puntualmente viene smentita per l’arrivo in anticipo della fine.
Chi ti ha lasciato prima del tempo è normalmente incazzato, e chi è rimasto non può far altro che cambiare le batterie dell’orologio, sperando che l’ultima ora non arrivi mai. O che comunque arrivi puntuale e non prima del tempo.
Poi c’è chi resta imprigionato nel tempo, in una dimensione che non puoi chiamare vita perché soffri come un cane, e non puoi chiamare morte, perché la morte, nonostante tutto, è dolce.
Papà era prigioniero, ammanettato a una malattia dalla quale non riusciva a staccarsi, nel bene e nel male. Soprattutto nel male. All’inizio credevo che la leucemia fosse una cosa subdola, nascosta, che lavora sotto fino all’ultimo. L’idea che la morte fosse annunciata solo alla fine da una emorragia incontrollabile era diventata a suo modo rassicurante, almeno fino a quando erano cominciati i problemi seri.
Inizialmente la terapia aveva avuto i suoi buoni risultati con la regressione quasi completa della malattia. Quasi completa, come il bicchiere mezzo pieno. Pensandoci mi veniva voglia di bere.
[ABSTRACT A CURA DELL’AUTORE]
SECONDO PREMIO
Sergio Compagnucci – Grosseto
La rosa di Gerico
La giusta luce dell’alba, con dominante rosa. Sul ponte, un barbone. Il giovane fotografo inserisce la funzione dello scatto continuo, click click click. Una coppia lascia al vecchio una moneta (vi è inciso malamente un sole che pare una luna), poi si ferma al parapetto e lui aiuta la compagna a salirvi: “lei sale, rimane per un istante dritta in alto stagliandosi nel cielo, quello dopo, si tuffa nel vuoto; lui mette un piede sulla ringhiera, e repentino la segue”. Questo, il primo incipit, e scusate se è poco (narrativamente, certo). Siamo trascinati di botto nel cuore del romanzo, lasciandoci alle spalle la calviniana molteplicità dei possibili, che Compagnucci allontana da sé “in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare”.
Il secondo incipit ci porta in media res. (che, per buona parte del racconto farà prevalere la figura retorico-geometrica delle rette parallele) Aula di tribunale. Tra gli altri, il giudice Corrado Laganà. Un processo disturbante: la violenza sessuale su una giovanissima (straniera). Dettagli pleonastici e malinconici. “Signorina, quando andava da sola a casa dello…questi…le faceva qualcosa che lei non avrebbe voluto?…lui era nudo, si era spogliato? E lei era vestita? E poi…” .
Mezzani un maresciallo ed una non più giovane assistente sociale, le storie si intrecceranno, nello srotolarsi del racconto che avvince, procedendo per capitoli e date: è la tecnica di Dos Passos (Manhattan Transfer), se guardiamo alla prima metà del XX, di Pratolini (Metello), per la seconda, e poi divenuta appannaggio del grande noir per le lettere (Cornwell, per dire a caso) e del melò filmico (da Lelouch a Gonzalez Inarritu).
Narrative story tale. Per esso, l’autore sceglie di avvalersi di fasi distinte in cui presente e passato, realtà e memoria si avvicendano, in un riuscito gioco ad incastro: un raffinato procedimento letterario che solleva in cielo complessità intime e lavorìo psicologico. [Francesco G. Forte]
TERZO PREMIO
Cosi’ semplice cosi’ difficile
Degna di figurare a pieno titolo nel robusto filone della narrativa memoriale, l’opera di Anna Maria Barberis si fa apprezzare per la freschezza delle descrizioni, con cui la narratrice riesce a trasfigurare una realtà misera e apparentemente insignificante, conferendole un’aura fiabesca, soprattutto nella prima parte. Del passato sono altresì isolati e trascelti i momenti piu’ significativi, che si configurano nella visione retrospettiva dell’io narrante come altrettante tappe del percorso di formazione, che porta una giovane donna a liberarsi da ogni dipendenza per divenire infine affatto autonoma e padrona del proprio destino, in pagine attraversate da una insopprimibile energia e da una contagiosa joie de vivre. [Fabio Dainotti]
PREMIATI CON TARGA
Fabrizio Evangelista, Simone Falorni.
PREMIATI CON MEDAGLIA
Pietro Caporossi, Raffaello Fontanella, Fiorella Franchini, Dario Ghiringhelli, Daniela Iannone, Mariarosaria Senatore, Pietro Solimeno.
POESIA 2009
PRIMA CLASSIFICATA
Questa mia vita
Per ombre luci abissi ho attraversato
questa mia vita di sussurri e gridi,
ombra io stesso, e luce, e vento in fuga
per rovi, ortiche, sangue di papaveri,
lasciando impronte di dolore e gioia,
sentendo a pelle il nascere dei giorni,
vivendo di pensieri in un impasto
di cellule, tremando quando un fiore
mi ha accarezzato l’anima.
Ho viaggiato
dentro un fuoco di sogni i cosmi e i cieli,
oltre i confini della notte ho visto
spalancarsi universi incandescenti
e respirato brezze di galassie
ancora ignote. Eppure mi è mistero
questo cuore che pulsa e mai riposa
e il sangue che mi batte nelle vene
e il pianto che mi brucia.
Andrò avanti
come una barca spinta tra due rive
estreme, dentro un mare che separa
il grido della nascita e il morire.
E mi farò silenzio in quel silenzio
che tutto avvolge e illumina, e che spinge
lune di vento a approdi d’infinito.
Giovanni Caso – Siano (Salerno)
(Dalla raccolta “Per assonanze e dissonanze”)
Con endecasillabi armoniosi, ricchi di emozionanti suggestioni espressive e di immagini ben costruite che vengono partorite dal lirico connubio tra la mente e l’anima, il poeta apre una finestra sugli ampi orizzonti di una parabola esistenziale totale, attraverso quel “mare che separa il grido della nascita e il morire”. Così, facendoci gustare “fuochi di sogni e brezze di ignote galassie” nello sgomento permanente del mistero, ci regala un’opera di alto livello e nello stesso tempo il soffio di versi che ci fanno assaporare tutto il caldo respiro della vita.
[Franco Bruno Vitolo]
SECONDA CLASSIFICATA
Separazione
Ho venduto, madre
la tua casa
so quanto l’amavi
e mi morde
l’atto sacrilego
della sua mutilazione,
a testa bassa
trascorro pomeriggi
tra le stanze deserte,
troppo grandi, troppo fredde,
scenari di quarant’anni
di tua vita,
dove si consumavano
con antica precisione
i riti affollati del Natale.
Mi aggiro piano
tra segmenti di vita
da conservare, da regalare
forse da gettare,
il pianoforte è chiuso,
chiusi i libri,
pensieri ciechi fra le copertine.
Apro gli spessi armadi,
dove mi nascondevo
fra fruscii di sete
e rosse vestaglie di festa,
trattenendo il respiro,
scivolavo nell’oscuro silenzio ,
tu, madre,stavi al gioco,
e fingendo, mi cercavi accorata.
Ondeggia un abito,
le tinte accese
d’agosti lontani,
quando a sciogliere
il caldo afoso
ci pensava il mare,
sdraiata con te
sulla spiaggia umida
con quelle pietre lente
levigate dal salso
che guardavano calme
come certe Madonne dei Portici
e nei tuoi occhi indovinano
ori e favole d’ambra
Pensavo alla mia vita
come un cerchio già chiuso,
tu ed io ai tuoi piedi
e all’improvviso
la voce ti manca,
mi dici di essere stanca
e adagio si rientrava
con l’ampia borsa
pesante di conchiglie,
di attese, di stupori senza fiato.
Sulla finestra i piccioni
hanno smesso di tubare,
sullo sfondo l’abside
di San Saverio
veglia impotente
sui vicoli dell’Albergheria,
la luce fredda del tempo
ha ossidato i miei sogni,
mi restano poche cose
piccoli cocci
da raccattare
prima di chiudere la porta.
Teresa Riccobono – Palermo
La poesia, che ha per tèma la vendita della casa materna , con il conseguente rimorso e l’affiorare ininterrotto dei ricordi, s’incentra tutta sul contrasto tra un presente fasciato di solitudine, di stanze “troppo grandi,/troppo fredde”; e un passato ,” dove si consumavano/con antica precisione/ i riti affollati del Natale” , tra gli interni, dove ” il pianoforte è chiuso, chiusi i libri “ (ma basta socchiudere spessi armadi, perché tornino a rivivere i giochi infantili vigilati dall’ amore materno); e gli esterni, caratterizzati dalle tinte accese di agosti lontani e dal mare, in grado sì di sciogliere il caldo africano, ma anche di fungere da sfondo alle prime avvisaglie o ai presentimenti di una salute declinante. L’utilizzo di un medesimo tempo verbale nella parte incipitaria e finale fa della lirica una ring komposition, chiudendola in una perfetta struttura circolare.
[Fabio Dainotti]
TERZA CLASSIFICATA ex-aequo
Occhiali
L’uomo che ti guardava fissamente,
con insistenza dal suo balconcino
un mattino morì: non lo trovasti
al tuo deluso appuntamento con
un ulteriore finto matinè.
Fingeva di guardare i suoi gerani
mentre guardava te. Ma tu esistevi
soltanto nella vostra fantasia:
un’altra donna, un’altra figurina,
senza occhiali sarebbero sembrate
la stessa cosa per le immaginarie
sue possibili fragili attenzioni.
L’uomo che tu sognavi una mattina
senza preavviso ha preso una sua nuova
dimensione: ha inforcato gli occhialetti
e con un gesto dignitoso è andato
dietro la scena. Fra le verità
di un mondo senza nuvole ed occhiali.
E da quel giorno guardi con un vago
sgomento il posto vuoto fra i gerani
e pensi a te: la vista ti si abbassa,
gli occhiali li abbandoni per pigrizia
fra le carte in soggiorno.
Piano piano
una sfocata verità si accende
nella bambagia della tua miopia :
l’uomo che ti guardava, o tu credevi,
accucciato nel folto dei gerani,
ti fa un cenno ammiccante e ti sorride.
Tu non sai se sorridergli a tua volta
o piangere sommessa. Sotto voce.
Paolo Sangiovanni – Roma
(Dalla raccolta “Penelope”)
Stabat Mater
ad Aisha, 13 anni, lapidata
a Chisimaio – Somalia – il 27 ottobre 2008
Ragazza mia, che più non hai memoria
del fiume attraversato a piedi nudi,
chiare le pietre amiche e levigate
a carezzare il passo tuo gentile,
in volo dolce verso Chisimaio.
Così io ti ricordo
(o almeno credo),
tese le braccia a bilanciare il guado,
gazzella ignara al sogno tuo leggero.
Così ragazza mia io ti ricordo,
così salivi al giorno, e non sapevi
il Golgota, né il fuoco alle stazioni:
dèmoni neri, angeli del Male,
violarono il tuo fiore ancora acerbo;
poi fecero del giunco tuo sottile
croce di te confitta sulla terra.
Ora che il tempo, tutto, è consumato,
di te ci resta questo tuo sorriso
fiorito sulle labbra un po’ arrossate,
più grandi (e appena più perduti) gli occhi.
Di te ci resta questo tuo silenzio,
lama di fuoco a mutilare i sogni.
Stringe adagio il tuo capo,
perse le mani dolenti,
tua madre,
lieve sfiorando i capelli tuoi crespi,
dolcemente raccolti sulla nuca
con fermagli di porpora e carminio.
Umberto Vicaretti – Luco dei Marsi (L’Aquila)
In versi sapientemente costruiti, intessuti efficacemente di rime interne, assonanze, metafore, anafore e metonimie concettuali, si dipana un gioco impalpabile di concreta solitudine, sospesa, nello scorrere del tempo, tra sogni, fantasticherie e illuse delusioni, appena trasfigurate dal simbolico e intimo incombere di “occhiali esistenziali” e ben rappresentate nello sfociare in sommessi sorrisi di pianto. Intimi, solitari, “sottovoce”. E per questo ancora più coinvolgenti. [Franco Bruno Vitolo]
Nel ritmo cadenzato dei versi il racconto di un fatto di cronaca, terribile e orrendo, diventa paradigma universale della violenza e del male, purtroppo ancora e sempre presenti nella natura umana. L’uso sagace delle metafore e la scelta attenta del lessico rivelano l’indubbio talento poetico dell’autore di questo canto doloroso e sconvolgente. [Maria Olmina D’Arienzo]
PREMIATI CON TARGA
Mina Antonelli, Giuseppe Bagno, Paolo Borsoni, Lorenzo Cerciello, Rosanna Di Iorio, Colomba Di Pasquale, Franco Fiorini , Emilia Fragomeni, Armando Giorgi, Niccolò Andrea Lisetti, Domenico Luiso, Lucia Mangili, Roberta Mazza, Roberto Mestrone, Enea Roversi, Rodolfo Vettorello.
PREMIATI CON MEDAGLIA
Mina Antonelli, Giuseppe Bagno, Paolo Borsoni, Lorenzo Cerciello, Rosanna Di Iorio, Colomba Di Pasquale, Franco Fiorini , Emilia Fragomeni, Armando Giorgi, Niccolò Andrea Lisetti, Domenico Luiso, Lucia Mangili, Roberta Mazza, Roberto Mestrone, Enea Roversi, Rodolfo Vettorello.
POESIA IN VERNACOLO REGIONALE
PRIMA CLASSIFICATA
EGGIA PENZA’
(al mio amico, il dott. Antonio Grosso)
Eggia penza’, eggia penza’ pe’ fforze
ch’a quell’atu uate ‘i ‘sti tempùne c’è ‘llu munne
adduve i crestiane mùrene e nàscene,
ed’an ce su’ su’ue purte cke se chiùdene
e strittue ck’anne pàrlene.
Eggia penza’. Eggia penza’ pe’ fforze
ch’ancuna bbanne,
addùve anne vòuene su’ue passarìlle,
s’aspèttene i vejìuje
e c’ede ‘a prejìzze du jurne ‘i feste.
Eggia penza’, se no ‘mpaccìscke,
ca c’è llu poste addùve ll’ùmmene
pàrlene e se cumpòrtene da gùmmene,
ed’an se prèghede su’ue pe’ lla pagùre ‘i maue campa’.
Se no, a ch’è serevùte ch’u rizze
c’è guassàte i pinne mminz’a strate
pe’ ghjì’a bbide cke cc’erede
a quell’atu uate du canaue?
Eggia penza’, eggia penza’,
e me ce ggia mitte tante curùse
‘nfigne a ck’i pensìre cu’ llu rumore
l’ena squarta’ stu ci’ue arramàte, l’ena pertusa’,
ed’ena fà sfuazzeca’ speranze e vvegurije.
Se no ‘nti paise nuste,
ammucciàte ‘ntu core d’a muntagne,
addùve ancore se sìntine ‘i suna’ i campane,
an putìme cuntinuà a campa’
su’ue p’accumpagna’ funuràue,
e pe’ penza’ ca craje o pescraje
pod’attucca’ pur’a nnuje.
Giuseppe Muscetta – Oriolo (Cosenza)
DEVO PENSARE – Devo pensare, devo per forza pensare/ che oltre queste colline/ c’è il mondo/ dove le persone muoiono e nascono,/ e non ci sono solo porte che si chiudono/ e vicoli rimasti senza parole./ Devo pensare,/ devo pensare per forza/ che da qualche parte,/ dove non volano solo passeri,/ si aspettano le vigilie/ e si gode la gioia del giorno di festa./ Devo pensare, altrimenti impazzisco,/ che c’è il posto dove gli uomini/ parlano ed agiscono da uomini/ e non si prega solo/ per paura di vivere male./ Se no, a ch’è servito che il riccio/ ci ha lasciato gli aculei in mezzo alla strada/ per andare a vedere cosa ci fosse/ dall’altra parte della fiumara?/ Devo pensare, devo pensare/ così intensamente/ fino a che i pensieri col loro rumore/ devono squartare questo cielo di rame,/ lo devono bucare,/ fino a far fioccare speranze e vigorie./ Altrimenti nei nostri paesi,/ nascosti nel cuore della montagna,/ dove ancora si odono suonare le campane,/ dobbiamo continuare a vivere/ solo per accompagnare funerali,/ e per pensare che domani o dopodomani/ potrebbe toccare pure a noi!
PRECISAZIONE DELL’AUTORE: La poesia è stata concepita in dialetto. La traduzione in italiano è strettamente e rigorosamente letterale.
L’anafora, complicata dalla geminazione intensiva, è lo stilema caratteristico di questa lirica, che è insieme tristezza e speranza, grido di denuncia e fede nella possibilità di cambiamento e di riscatto di una terra troppo a lungo rimasta chiusa e isolata nel suo tormento e nelle sue ataviche ferite, ma fortemente amata e appassionatamente radicata nell’intimità più profonda di sé e del proprio essere ed esistere. Attraverso la tecnica poetica, l’intenso pathos diventa straordinariamente logos, pensiero, capace di squarta’ e pertusa’ il cielo di rame, per trovare un varco e penetrare in una dimensione, dove gli uomini possono “parlare ed agire da uomini”, senza paura e senza vana, inutile rassegnazione. [Maria Olmina D’Arienzo]
SECONDA CLASSIFICATA
La fréva cundinue accire l’òmene
So venute a la luce ndò la Terre
re la luce: acchessì glie ùmene šchétte
re la notte r’i tiémbe
ca zumbàvene sóp’a i spundune arse
re nu mare a lu Tirréne a strapiombe
chiamàvene quìre luóche ch’a oriènde
racive aglie uócchie i prime chiaróre
e aprive ngape lu ciéle –
na crerènze fatua quére r’i vuósche,
ndése ca nunn’ére sóle re la Lucanije
tanne
la sorte re lu mande umbruse
e sènza varche
re glie àrbere tutt’accustate.
Iére re febbraie e ng’ére la néve
ch’aquijetave,
ch’apparave i suspire prime angóre
r’i lìmete sóp’a re ccase.
Ma la lonne ndaccave chiare e tonne
ndra i capidde nìh*ure re mamme
ca pròbbije quìre iuórne facive
vendeséie anne, lambesciave
sóp’a i riénde miése a lanure
ra attàneme
pe la prima vóte attane. P’i mure,
e angóre cchiù sóp’a la làmmije,
ng’èrene h*rellande e stèlle luciénde,
acchessì vulènne, pe usanza andìche,
scacciàreme ra la prima viste
ogne penziére re puvertà. Iére – e iè –
quèste la paure re la ggènta mìje:
la mesèrije.
«La fréva cundinue» – ca iè la fame –
«accire l’òmene», angóre ósce rìcene.
Re sti natale, manghe a ddirle,
aggia purtà sémbe tutte l’orgoglie.
Gennaro Grieco – Trana (Torino)
La febbre continua uccide l’uomo – Venni alla luce nella Terra/ della luce: così/ gli uomini semplici/ della notte dei tempi/ che saltellavano sui riarsi scogli/ di una marina al Tirreno scoscesa/ chiamavano quel luogo che ad oriente/ dava agli occhi i primi bagliori/ e apriva alla volta del cielo – una fatua credenza quella dei boschi,/ dacché non della sola Lucania era/ a quel tempo/ prerogativa il manto ombroso/ e impenetrabile/ degli alberi in fitta schiera./Era di febbraio e c’era la neve/ che portava quiete,/ che pareggiava i sospiri prima ancora/ dei profili sopra le case./ Ma il riverbero scolpiva chiare onde/ fra i capelli brunicci di mia madre/ che proprio quel giorno compiva/ ventisei anni, accendeva lampi/ sui denti messi a nudo/ da mio padre/ per la prima volta padre. Per le pareti,/ e ancora più sul cielo della stanza,/
c’erano festoni e stelle lucenti,/ con ciò volendo, per antica usanza,/ scacciare dal mio primo sguardo/ ogni ipotesi di povertà. Era – ed è – questa la paura della mia gente:/ la miseria./ «La febbre continua» – cioè la fame –/ «uccide l’uomo», ancora oggi dicono./ Di tali natali, nemmeno a dirlo,/ porterò sempre orgoglio pieno.
SECONDA CLASSIFICATA
Migrazion
Tortoree grise infumegae
assa vódi i gnari sói siesoni
‘e se intabàra zo sóa paciarea
par partir prima che ‘a note s-ciare
i gati ancora incoatai
‘e scanpa via na pipada de camin.
Se te ‘e vardi speciae nea petiniera
‘e par ‘e onbre smentegae dai noni
i fassoeti picai sói pèrgoi
‘e saeuda come tanti ani fa
quando i ze partii pa ‘ndar lontan
‘e sachéte inpienae de vento.
I carezava tuti ‘a vanduja
prima de inviarse sóe vanede
i pie che semenava sénare
i musi frapoeai da ‘a scafa
no’ i voéa voear via da de là
i se contava e fòle dee sisie.
Taca slavajare i cópi canta
inpisso a fornea e vardo fóra
mi sóea so restà nea contrà vóda
fasso frégoe de pan e fugassa
da semenar tra ‘e russe co ‘a smete
speto senpre el bechetar sui veri.
Laura Vicenzi – Bassano del Grappa ( Venezia)
Migrazione – Tortorelle vestite di nerofumo/ lasciano vuoti i nidi tra le siepi/ si affossano tra le piume giù tra la fanghiglia/ per partire prima che faccia giorno/ i gatti ancora accoccolati come gomitoli/ se ne vanno via in uno sbuffo di fumo./ Se le osservi passare riflesse nello specchio/ sembrano le ombre scordate dai nonni/ i fazzoletti stesi sui balconi/ le salutano come hanno fatto anni prima/ quando sono partiti per andare lontano/ il povero bagaglio riempito di vento./ Lasciavano una carezza al vascone vuoto/ prima di avviarsi tra i solchi/ i passi che seminavano cenere/ i visi stropicciati dal pianto/ non volevano andare via di lì/ si raccontavano andando le favole delle rondini./ Comincia a piovere si sente il/ canto dei coppi/ accendo la stufa e guardo fuori/sono restata sola qui nella contrada/ sbriciolo pane e focacce/ da seminare fuori tra i rovi per quando smette/ aspetto sempre il becchettare sui vetri.
L’ osservazione di un semplice dato naturalistico, la partenza delle tortorelle vestite di nerofumo riflesse nello specchio della pettiniera, fa scattare, nella poesia di Laura Vincenzi, la rievocazione dolorosa dell’emigrazione dei nonni, con il particolare toccante del saluto muto e dcll’ultima carezza agli oggetti familiari. Dopo l’arioso frullare d’ali e le lacrime che devastano il volto degli emigranti, torna, nella parte finale della composizione, il silenzio della casa deserta, dove l’io lirico, mentre ”comincia a piovere e si sente il canto dei coppi “, si affida ai gesti consueti (“accendo la stufa e guardo fuori”), per esorcizzare il senso di vuoto e un’assenza avvertita come intollerabile. [Fabio Dainotti]
PREMIATI CON TARGA
Antonio Covino, Maria Teresa Merenda, Francesco Palermo, Marisa Santoro, Loredana Simonetti.
PREMIATI CON MEDAGLIA
Giuseppe Bellanca, Ettore Cicoira, Marco Managò, Maria Luisa Tozzi.
RACCONTI BREVI
PRIMA CLASSIFICATA
Sandra Frenguelli – Perugia
L’orologio senza tempo
Per il primo sabato di agosto, mi sono preoccupato di fare un’attenta revisione agli ingranaggi, verificare la perfetta sincronia delle lancette e la cristallina trasparenza del vetro. E’ tutto a posto. Sono l’orologio di una delle stazioni più importanti d’Italia, la mia precisione fa onore alla florida città di Bologna.
In stazione c’è folla. Difficilissimo, praticamente impossibile, trovare parcheggio. Lo sa a sue spese il signore che dopo aver dato uno sguardo verso di me, decide di far scendere dall’auto i suoi familiari : una donna anziana, forse sua madre, una più giovane, forse sua moglie e una bambina con un cappellino giallo, immagino sua figlia.
BOooAatOoo. Deeflaagrazioone. Crollo. Schianto. Tonfi di morte. Silenzio atterrito. Caos. Caos di guerra.
Guardo giù. Scorgo nel fumo che sale acre e rovente di sgomento i calcinacci, i vetri e la ferraglia del tetto crollato delle sale d’aspetto. Il piazzale è un fuggifuggi di persone tra urla paurose.
La bambina con il cappellino giallo ha il volto ferito. E’ in un pianto disperato. Continua a dire a sua madre di alzarsi, le tira la maglietta, la scuote. La madre non può più risponderle.
I corpi di due innamorati che solo mezz’ora fa si erano avviati in stazione mano nella mano, li stanno caricando sul 37. Corpi, feriti, grida. Tante grida. Nomi urlati disperatamente, ossessivamente dai sopravvissuti. Risuona assordante il silenzio delle mancate risposte.
Sono un orologio. Per la prima volta da quando domino il piazzale della stazione, sono senza tempo, posso immaginarne uno tutto mio ed avere desideri. Mi assento dallo strazio di questo giorno, dalle macerie visibili e invisibili della bomba e sposto il tempo più in là, alle 10:25 del due agosto dell’anno dopo.
Ho contato trecentosessantacinque tramonti. Quella di domani deve proprio essere l’alba del due agosto 1981. Le mie lancette sono sempre fisse sulle dieci e venticinque. Non mi hanno aggiustato. Non mi aggiusteranno più. Non si aggiusta la memoria.
Gli sguardi che si alzano verso di me sono silenziosi e gravi. Mi sento trapassare dagli occhi della gente, quasi fossi uno specchio che riflette all’infinito il dolore di quel giorno.
Un uomo si sta avvicinando con accanto una bambina. Si china verso di lei. Le dice di alzare lo sguardo verso di me, mi fissano a lungo, l’uomo si asciuga gli occhi con pudore. Bacia la bambina, la stringe, la prende in braccio. Lei si aggiusta sulla testa un cappellino giallo.
[ABSTRACT A CURA DELL’AUTRICE ]
La tremenda strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna raccontata da un’angolazione originale, fantasiosa eppure terribilmente “vera”. A parlare è infatti l’orologio, quell’orologio le cui lancette sono rimaste ferme, ad imperituro monito della memoria. La scelta stilistica è suggestiva e coinvolgente proprio per il suo straniamento formale. I ricordi, le riflessioni, le zoomate dell’orologio sono filtrate dalla particolare oggettività dell’occhio narrante, ma proprio per questo, la vicenda nel suo complesso, gli intensi quadretti, i piccoli particolari di vita e di morte, del prima e del dopo, per il lettore che sa, diventano fonte di emozione e commozione. E traducono in una profonda e duratura “esplosione” interiore. [Franco Bruno Vitolo]
SECONDA CLASSIFICATA
Lella De Marchi – Pesaro
Paul et Juliette
Se Juliette fosse Norah (Jones) e Paul fosse Jude (Law) – passato dal bancone al tavolo del suo piccolo Cafè -, saremmo dentro un romantico delirio, diretto dal “nobile” Wong (Kar-wai), pioggia e neon compresi. In questo caso, lo sguardo di J. sarebbe quello della mdp che in diagonale sorvola oggetti e persone, mentre cerchi di luce illuminano dettagli – i denti bianchissimi, le mani forti, i capelli ondulati… -. Fatto è che l’autrice è tutta immersa – e ci sommerge – in una scrittura labirintica e densa di alti rimandi, come – il più immediato, per dire – quello dettato dalla école du regard che, non per caso, il suo ispiratore, Robbe Grillet, volle spostare dalla pagina allo schermo. Su di esso la protagonista del racconto rivede un frammento di sé, un lampo al magnesio, una rarefazione splendidamente conchiusa in eros. [Francesco G. Forte]
PREMIATI CON TARGA
Pascal Abatiello, Alessio Angelico, Luigi Arena, Silvana Aurilia, Anna Caldara, Gerardo Giordanelli, Aldrigo Grassi, Dionigi Mainini, Francesco Marconi, Giulia Martano, Pierino Pini, Giuseppina Zupi.
PREMIATI CON MEDAGLIA
Alessandro Asciolla, Maria Bellucci, Aldo Bonato, Rosario Castronuovo, Mirella Cuaz Alborno, Carla D’Alessandro, Patrizia Di Martino, Arthur Primus Macad, Emilia Merenda, Pierfrancesco Roccato, Maria Luigia Scialpi, Martino Sgobba, Trap, Lenio Vallati.